CORRIERE DELLA SERA – ECONOMIA – Articolo del 1.10.2019 di Gabriele Petrucciani

I piani pensionistici: il confronto

Meglio un fondo chiuso o un piano di investimento individuale? Meglio un fondo pensione o un accantonamento a rate in un Etf? Mettiamo su una pedana per sfidarsi a duello i protagonisti della previdenza integrativa che può aiutarci ad «allargare» la stretta pensione pubblica che aspetta noi (ma soprattutto chi verrà dopo di noi) e vediamo chi vince.
Nel nostro sistema ci sono diverse pensionistiche complementari: il fondo pensione aperto, il fondo chiuso e il piano individuale pensionistico (Pip o Fip). Poi c’è sempre l’opzione di mettere via i soldi investendo in un veicolo non previdenziale, come un piano a rate in un fondo comune.
Più rischi, più rendimenti, nessuna agevolazione fiscale. Prima si inizia a versare nella previdenza integrativa, invece, maggiori saranno i benefici fiscali. Queste sono le regole dei duelli, realizzati con la collaborazione di Consultique, che troverete in queste schede. Tra costi e rendimenti offerti, i prodotti non sono tutti uguali.

 

Quanto si perde tra stipendio e pensione? Anche il 40%
Se consideriamo il profilo di un lavoratore tipo, per esempio un uomo 35enne che ha appena iniziato a lavorare, con un reddito annuo lordo di 30 mila euro, il tasso di sostituzione al momento del pensionamento sarà di appena il 60% circa (l’ipotesi tiene conto di un’inflazione al 2% e di una crescita dei redditi futuri del 2% oltre il costo della vita). Questo cosa vuol dire? Che tra il suo ultimo stipendio e il primo assegno Inps ci sarà un buco del 40%. Nell’esempio in questione, Consultique ha stimato che rispetto all’ultimo reddito lordo annuo percepito, 55.428 euro (34.141 euro netti), si andrà in pensione con un lordo di 26.589 euro, pari a un netto di 20.447. In soldoni, dunque, si perdono circa 13.500 euro l’anno, per un introito mensile più basso di circa 1.100 euro. Un gap che non permetterà al pensionato di mantenere lo stesso tenore di vita che aveva in età lavorativa. Ma questo vuoto può essere colmato, almeno in parte, aderendo a una qualche forma di previdenza integrativa, che permetterà di innalzare il tasso di sostituzione.

Fondo pensione: il confronto con il Tfr
I fondi pensione? Sono più forti del Tfr. Il confronto sugli ultimi 10 anni realizzato da Consultique non lascia dubbi: la previdenza complementare ha offerto mediamente in due lustri un rendimento vicino al 50% (46,94% i fondi chiusi e 49,88% quelli aperti) contro il 22,86% della rivalutazione del Trattamento di fine rapporto. Oltre il doppio, insomma. Anche se per raggiungere questo risultato si è dovuto, inevitabilmente, alzare il livello di rischio. Per anni, da quando è scattata la riforma del Tfr del 2007, la «liquidazione» è finita al centro del dibattito della previdenza complementare. Meglio versare anche il Tfr nel fondo pensione (nel caso dei prodotti chiusi, o di categoria, il versamento del Tfr maturando è obbligatorio) o lasciarlo in azienda? Un interrogativo legittimo considerando la rivalutazione annua certa del Trattamento di fine rapporto (l’1,5% maggiorato del 75% dell’inflazione), ma sempre più striminzita considerato l’andamento del costo della vita. Investendo in azioni e obbligazioni , ci si espone al rischio mercato e quindi a potenziali perdite. Ma nel lungo periodo i mercati hanno sempre restituito ritorni positivi agli investitori: negli ultimi 50 anni, per esempio, le azioni internazionali hanno reso il 4% annualizzato, mentre le obbligazioni il 3,7 per cento. Numeri che fanno pendere l’ago della bilancia a favore della previdenza complementare.
Una strada lunga 12 anni
Dal 2007, anno della riforma, sono trascorsi ormai 12 anni. Un lasso di tempo ragionevole per poter vedere se nel medio-lungo periodo la previdenza complementare è in grado di battere il Tfr. Così, Consultique ha messo a confronto i rendimenti dei diversi comparti dei fondi pensione, aperti e chiusi, con la rivalutazione del trattamento di fine rapporto. Tra i fondi chiusi il comparto garantito, su cui gravano costi elevati per assicurare la protezione del capitale, ha reso il 17,88%, mentre tra gli aperti, monetari e obbligazionari, per via dei tassi bassi, sono cresciuti rispettivamente del 9,02% e del 20,51%. Salendo sulla scala del rischio, però, il quadro migliora radicalmente: i bilanciati sono saliti del 60,27% tra i chiusi e del 52,64% tra gli aperti, mentre le linee azionarie rispettivamente dell’83,91% e del 93,79 per cento. Infine va ricordato che la tassazione delle prestazioni finali è nettamente a favore della previdenza complementare perché si paga un’aliquota massima del 15% contro il 23% minimo che colpisce la liquidazione lasciata in azienda.
L’alternativa degli Exchange traded fund
Non c’è solo il fondo per costruirsi una previdenza complementare. La pensione di primo pilastro (quella pubblica) potrebbe anche essere integrata con un piano di accumulo (Pac) fatto in casa, magari investendo in uno o più Etf, alzando però il livello di rischio. Ma con che risultato? Per scoprirlo, Consultique ha messo a confronto i rendimenti medi al netto della fiscalità dei fondi pensione aperti, obbligazionari e azionari, con l’andamento di due «replicanti»: uno copia il BarCap Euro Aggregate Bond (l’indice obbligazionario dell’area euro) e l’altro l’Msci World (l’indice azionario mondiale). Questa volta, il fondo pensione ne esce sconfitto. Negli ultimi 10 anni (da luglio 2009 a luglio 2019), l’indice obbligazionario è cresciuto del 39,75%, contro il 20,51% medio dei fondi pensione, mentre l’Msci World è salito del 182,23%, quasi 2 volte di più della linea azionaria della previdenza integrativa (+93,79%). Numeri che, da un lato, non lasciano dubbi su quale sia la scelta migliore; ma, dall’altro lato, c’è da dire che questo duello non prende in considerazione alcuni vantaggi, materiali e non, tipici della previdenza integrativa. Innanzitutto, il fondo pensione nasce con un intento specifico: aiutare il lavoratore a colmare il gap tra rendita pensionistica e ultimo stipendio (il tasso di sostituzione stimato per un 35enne che inizia a lavorare oggi con uno stipendio lordo annuo di 30mila euro è del 60% circa). Proprio per questo ha delle regole finalizzate a conservare l’investimento per un lungo periodo di tempo.

Il contributo del datore di lavoro
Per fare un esempio, la richiesta di un anticipo al fondo pensione può essere fatta solo dopo 8 anni di permanenza nel fondo stesso. Con il piano di accumulo fatto in casa, invece, il capitale potrà essere ritirato in qualsiasi momento. E, psicologicamente, in caso di perdita si potrebbe essere tentati di disinvestire tutto. Ma veniamo agli aspetti più materiali. Il primo è la possibilità di avere un contributo aggiuntivo dal datore di lavoro se si aderisce a un fondo di categoria (per il fondo Cometa, per esempio, corrisponde al 2%). Soldi in più — non considerati nella nostra elaborazione che considera solo i fondi aperti — e che nel lungo periodo fanno crescere il montante finale, a cui si aggiunge una tassazione agevolata (vedi grafico) sulla rendita o sull’eventuale ritiro del capitale a fine corsa (massimo 15% contro il 26%). Inoltre con il fondo pensione è possibile godere di un beneficio fiscale: la deducibilità dei contribuiti versati (abbattimento dell’imponibile fiscale) fino a un massimo di 5.164,57 euro l’anno. Parte delle somme investite rientrano in tasca come minor Irpef pagata
Fondi pensioni: le tre tipologie in campo
Se per integrare la pensione pubblica il lavoratore autonomo può scegliere solo tra fondi aperti e piani individuali pensionistici (Pip o Fip), per il dipendente, invece, l’offerta della previdenza complementare si amplia con un ulteriore strumento: il fondo chiuso, ovvero quello di categoria. Tutte e tre le soluzioni godono degli stessi benefici fiscali, una deducibilità dei contributi versati fino a un massimo di 5.164,57 euro l’anno. Quale scegliere allora? Una prima valutazione può essere fatta sulle spese sostenute. Qui ci viene incontro la Covip (la Commissione di vigilanza), che sul sito pubblica regolarmente l’indicatore sintetico di costo (Isc), su più orizzonti temporali, dei singoli strumenti e comparti. Il confronto pende nettamente a favore dei fondi pensione di categoria, che a cinque anni hanno un costo medio dello 0,61%: valore che si riduce sensibilmente a 10 anni (0,41%) e a 35 anni (0,27%). I prodotti più costosi, invece, sono i piani individuali pensionistici, che a 5 anni mostrano un Isc medio del 2,67%, a 10 anni del 2,20% e a 35 anni dell’1,81 per cento. Nel mezzo si collocano i fondi pensione aperti, con costi medi rispettivamente dell’1,56%, 1,34% e 1,20 per cento.
Il fattore costi penalizza i Pip
Un altro elemento da prendere in considerazione, poi, è il rendimento, nella consapevolezza, però, che la performance passata non offre nessuna garanzia per il futuro. Per vedere chi corre di più, sono stati analizzati sempre i dati Covip, su un orizzonte temporale di dieci anni, dal 2009 al 2018. E, anche in questo caso, i Pip ne escono sconfitti, con un rendimento medio annualizzato del 5,4% per il comparto azionario e dell’1,2% per la linea obbligazionaria (analizzando i singoli prodotti, invece, il migliore rendimento a 10 anni è proprio di un Pip di Bcc Vita, con un +10,24% annualizzato). Tra fondi pensione chiusi e aperti, invece, è un duello al fotofinish. Nel comparto azionario, a primeggiare sono i primi, 61% contro 59%, mentre sulla linea obbligazionaria sono i fondi aperti a superare di appena una lunghezza quelli chiusi, 61% contro 59%. Viste le performance così ravvicinate, nella scelta potrebbe essere determinante il contributo del datore di lavoro, previsto solo per i fondi chiusi, ammesso che si versi il minimo del contributo volontario previsto dallo statuto