A volte mi ritrovo a riflettere sulla fralezza della vita e sulla scarsa importanza che le riserviamo. Quando dimentichiamo che, in fondo, la vita è tutto ciò che abbiamo, spesso l’esito di questa distrazione si traduce in tragedia, e il carico di dolore che ne deriva viene riversato nelle aule di Giustizia, ove il danneggiato cerca un rimedio, una toppa che copra e nasconda lo strappo procurato.

A prescindere dall’oggetto, mi pare infatti che il processo assuma la veste di un imperfetto strumento fragile e tortuoso, costruito col fine di riparare, e malamente suturare, evitabili e profonde ferite che, inevitabilmente, lasceranno sul nostro corpo cupe cicatrici.

Il fatto

Nel caso in commento, si rivolgevano al Tribunale di Taranto, per chiedere il risarcimento dei danni non patrimoniali subiti, gli eredi di un lavoratore deceduto dopo aver prestato servizio per molti anni (circa quaranta) a bordo delle navi militari, quale dipendente presso l’Arsenale della Marina Militare di Taranto. Assumevano i ricorrenti che al lavoratore era stata diagnosticata una grave malattia (mesotelioma pleurico) e che, dopo soli sei mesi dalla diagnosi, egli era deceduto. Gli eredi lamentavano, quindi, che la patologia fosse da collegare, con rapporto di causalità, all’attività lavorativa svolta dal de cuius e implicante una continua esposizione all’amianto, espletata senza il rispetto delle norme anti-infortunistiche e in absentia di idonei dispositivi di protezione: chiedevano, quindi, che il Ministero della Difesa fosse condannato al risarcimento dei danni non patrimoniali subiti. Il Tribunale pugliese, con la sentenza n. 3488 del 27.10.2016 in commento, ha accolto la domanda dei ricorrenti, precisando in quali limiti fosse loro dovuto il risarcimento del danno non patrimoniale. Vediamone i tratti salienti.

La responsabilità del datore di lavoro

Il Tribunale di Taranto, all’esito dell’istruttoria, ha ritenuto fosse stato provato dalla Consulenza Tecnica di Ufficio che il de cuius era affetto da un mesotelioma epitelioide pleurico (una forma tumorale relativamente rara e molto aggressiva), e che a tale grave patologia fosse da attribuire eziologia professionale. I testimoni escussi avevano quindi confermato le mansioni del lavoratore deceduto, la sua continua esposizione all’amianto (presente, in notevoli quantità, a bordo delle navi sulle quali lavorava) e la mancanza di dispositivi di protezione individuali.

Il Tribunale ha subito ricordato, nel corpo motivazionale della sentenza, che, in tema di esposizione all’amianto, secondo l’esegesi della Corte di cassazione, la responsabilità dell’imprenditore, ex art. 2087 C.C., “deve ritenersi volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio” (Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 05 agosto 2013, n. 18626).

Aderendo, quindi, al dictum della Corte regolatrice, il Giudice pugliese ha evidenziato che la responsabilità del datore di lavoro sussiste anche nel caso in cui la sua condotta sia da considerare concausa, e non causa esclusiva, del danno lamentato. Ricorda infatti la Corte di legittimità, sul punto, che “ove la condotta abbia concorso, insieme a circostanze naturali, alla produzione dell’evento, e ne costituisca un antecedente causale, l’agente deve rispondere per l’intero danno, che altrimenti non si sarebbe verificato” (Corte di Cassazione, sezione III, sentenza n. 9528 del 12 giugno 2012).

È pertanto sufficiente che il processo chiarisca e accerti se l’esposizione del lavoratore alle sostanze tossiche abbia avuto incidenza causale, anche non esclusiva, nel determinare la successiva malattia: ove ciò sia accertato, il datore di lavoro risponde per l’intero danno.

Peraltro, con sentenza n. 10448 del 2004, la Corte di cassazione aveva avuto modo di precisare che in caso di malattia professionale, il nesso causale tra malattia e causa lavorativa non è escluso da una precedente predisposizione morbosa del lavoratore, e quindi dal concorso di altre cause aventi origine extra-lavorativa. Ne consegue che la prestazione assicurativa spettante al lavoratore non può essere ridotta nella misura percentuale corrispondente all’entità patologica esplicata dalla sola malattia professionale, ma deve essere riconosciuta per l’intero, non essendo possibile distinguere tra cause professionali e cause non professionali, in forza del principio di equivalenza causale.

Non diversamente, con sentenza 24 luglio 2004, n. 13928, la Corte nomofilattica aveva stabilito – in un caso di lavoratore colpito da infarto miocardico mentre svolgeva la propria attività lavorativa in affaticamento fisico e in condizioni climatiche sfavorevoli – che la predisposizione morbosa non esclude il nesso causale tra sforzo ed evento infortunistico, in relazione anche al principio di equivalenza causale di cui all`art. 41 CP, che trova applicazione nella materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali. Di conseguenza, un ruolo di concausa va attribuito anche a una minima accelerazione di una pregressa malattia – salvo che questa sia sopravvenuta in modo del tutto indipendente dallo sforzo compiuto o dallo stress subito nella esecuzione della prestazione lavorativa – la quale, anzi, può rilevare in senso contrario, in quanto può rendere più gravose e rischiose attività solitamente non pericolose e giustificare il nesso tra l’attività lavorativa e l’infortunio.

Del resto, un’azione è causa di un evento se ne è stato un antecedente logico necessario, ossia non eliminabile senza modificare, al contempo, l’an e il quomodo dell’evento realizzatosi. Nel processo civile, come noto, a differenza del processo penale (dove l’ipotesi accusatoria deve superare il vaglio del “the no other reasonable hypothesis rule”), senza pretesa di esaustività (sull’argomento si son scritti fiumi di parole) si segue la regola del “più probabile che non”: ossia, la sussistenza del nesso causale è dimostrata se l’ipotesi dedotta è sussumibile sotto una legge generale di copertura statistica superiore al 50%.

Il Tribunale ha pertanto ritenuto accertato che, da una parte, il lavoratore deceduto sia stato esposto con continuità, in ambito lavorativo, a contatto con sostanze cancerogene (polveri di amianto); e che, dall’altra, il datore di lavoro abbia omesso di fornire al lavoratore gli strumenti di protezione necessari –violando, in tal modo, gli obblighi di protezione previsti dalla legge. Del resto, la norma di chiusura di cui all’art. 2087 CC, che impone all’imprenditore di adottare nell’esercizio dell’impresa le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, è disposizione inderogabile di legge ed è posta a tutela del diritto alla salute dei lavoratori e del dovere di tutela gravante sull’imprenditore, in ottemperanza agli artt. 2, 32 e 41 della Costituzione.

A tale proposito, il Tribunale pugliese ha ricordato che l’obbligo che l’art. 2087 cod. civ. pone a carico del datore di lavoro riguarda sia la predisposizione e la messa a disposizione dei dispositivi di protezione, a tutela dei lavoratori, sia la successiva operazione di costante controllo finalizzata ad accertare che i lavoratori rispettino le norme di sicurezza e facciano uso dei dispositivi medesimi. L’esegesi della Corte regolatrice si muove infatti su un solido binario allorquando ricorda, senza alcuna soluzione di continuità, che “il datore di lavoro è responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente all’eventuale concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare l’esonero totale del datore di lavoro da ogni responsabilità solo quando presenti i caratteri dell’abnormità e dell’imprevedibilità rispetto al procedimento lavorativo tipico ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell’evento (cfr. Cass., 17 febbraio 2009, n. 3786; Cass. 13 settembre 2006, n. 19559; n. Cass., 14 marzo 2006, n. 5493; Cass., 8 marzo 2006, n. 4980). Pertanto l’omissione di cautele da parte del lavoratore non è idonea ad escludere il nesso causale rispetto alla condotta colposa del datore di lavoro che non abbia provveduto ad adottare tutte le misure di prevenzione necessarie per il concreto svolgimento del lavoro e ad assicurarne il rispetto, non essendo né imprevedibile né anomala una dimenticanza dei lavoratori nell’adozione di tutte le cautele necessarie, con conseguente esclusione, in tale ipotesi, del cosiddetto “rischio elettivo”, idoneo ad interrompere il nesso causale e ravvisabile solo quando l’attività non sia in rapporto con lo svolgimento del lavoro o sia esorbitante dai limiti di esso” (Cassazione Civile, Sezione lavoro, Sentenza n. 4668 del 09.03.2015).

Quanto alla ripartizione degli oneri probatori, la giurisprudenza di legittimità è altrettanto univoca nel ribadire che – posta la natura contrattuale della responsabilità che incombe sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 C.C. – al lavoratore spetta l’onere di riscontrare il fatto costituente inadempimento dell’obbligo di sicurezza, nonché il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento stesso ed il danno da lui subito, mentre non è gravato dall’onere della prova relativa alla colpa del datore di lavoro danneggiante, onere che, invece, incombe sul datore di lavoro e che si concreta nel provare la non imputabilità dell’inadempimento (Cass., 25 maggio 2006, n. 12445; Cass., 14 aprile 2008, n. 9817; Cass., 11 aprile 2013, n. 8855; Cass., 2 luglio 2014, n. 15082).

Il Ministero convenuto, nel procedimento in esame, non ha fornito alcuna prova in tal senso.

Quantificazione del danno

Accertata la responsabilità del datore di lavoro e chiarita la risarcibilità del danno biologico differenziale (il danno biologico non coperto e non risarcito dall’INAIL) ai fini di una completa attuazione dell’art. 32 della Costituzione, il Tribunale ha affrontato, quindi, il tema relativo alla quantificazione del danno non patrimoniale spettante agli eredi del lavoratore defunto.

Il Giudice ha originato il suo ragionamento dalla conclusione della Consulenza medico-legale che aveva accertato, ai danni del dipendente deceduto, una invalidità pari al 100% della totale, con decorrenza dal mese di giugno 2010 (allorquando gli era stata diagnosticata la grave patologia). Per stimare la quantificazione del danno risarcibile, il Tribunale ha sussunto l’accertato grado di invalidità all’interno delle Tabelle di Milano per la liquidazione del danno non patrimoniale, ritenendo, in uno con la costante giurisprudenza di legittimità, che esse fossero adottabili in luogo di quelle locali, in quanto la loro applicazione generalizzata e uniforme su scala nazionale consente di meglio garantire il principio di equità, non diversificando l’entità del risarcimento in considerazione del luogo di accadimento dell’evento: sarebbe infatti iniquo e intollerabile che danni identici fossero liquidati in misura differente sol perché esaminati da diversi Uffici Giudiziari. Dopodiché, così stimato il danno biologico, il Giudice ha deciso di adattare al caso concreto, con criterio equitativo, la liquidazione astrattamente spettante agli eredi in virtù dell’applicazione delle citate Tabelle di Milano: ciò ha fatto applicando alla somma calcolata una decurtazione del 50%, in considerazione del fatto che il lavoratore ha dovuto sopportare il danno, a livello psicofisico, per un lasso di tempo ridotto, anche se non minimo (circa sei mesi), in quanto la patologia gli veniva diagnosticata nel marzo del 2010 e il decesso si verificava nel successivo mese di settembre: la lesione psicofisica, quindi, non si era protratta per un tempo paragonabile alla vita media e non sarebbe stato corretto non prendere atto di tale parametro.

Dal danno così determinato, il Tribunale ha infine detratto la somma liquidabile dall’INAIL, ai sensi della legge n. 38/2000 – quantificata in via presuntiva in quanto la richiesta non era stata azionata dal lavoratore deceduto – ottenendo così il danno differenziale spettante ai ricorrenti.

Talché, il Tribunale, passando all’esame della risarcibilità iure hereditatis del danno da perdita della vita immediatamente conseguente alle lesioni derivanti da un fatto illecito (cd. danno tanatologico), riteneva di escluderla, adeguando la propria decisione al dictum del massimo Consesso civile. Ebbene, come noto, le Sezioni Unite civili della Corte di cassazione, con la sentenza 17 giugno-22 luglio 2015, n. 15350, hanno stabilito che allorquando la morte sia immediata o segua entro un brevissimo lasso di tempo alle lesioni, non può essere invocato un diritto al risarcimento del danno iure hereditatis. Tale esegesi – che è peraltro in linea con l’orientamento della prevalente giurisprudenza europea – viene quindi spiegata dalla Corte di legittimità in considerazione del fatto che “nel caso di morte cagionata da atto illecito, il danno che ne consegue è rappresentato dalla perdita del bene giuridico ‘vita’ che costituisce bene autonomo, fruibile solo in natura da parte del titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente (Cass. n. 1633 del 2000; n. 7632 del 2003; n. 12253 del 2007). La morte, quindi, non rappresenta la massima offesa possibile del diverso bene salute“, trattandosi di due beni distinti. Pertanto, sottolinea la Corte, “nel caso di morte verificatasi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, l’irrisarcibilità deriva (non dalla natura personalissima del diritto leso, come ritenuto da Cass. n. 6938 del 1998, poichè, come esattamente rilevato dalla sentenza n. 4991 del 1996, ciò di cui si discute è il credito risarcitorio, certamente trasmissibile, ma) dalla assenza di un soggetto al quale, nel momento in cui si verifica, sia collegabile la perdita stessa e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito […]”.

Poiché il lavoratore era deceduto a breve distanza dalla diagnosi della malattia (circa sei mesi), il Giudice ha di conseguenza ritenuto non risarcibile il danno da perdita della vita agli eredi ricorrenti.

In conclusione, si tratta di una buona sentenza che in parte si adagia, facendoli propri, sui principali arresti di legittimità che si sono espressi sull’argomento in esame; e che, dall’altra, fa uso di criteri equitativi che lo scrivente ritiene di condividere.

Avv. Federico Loche

Foro di Roma